23 maggio 2006

Testamenti, ricchezze, miseria e nobiltà


Chi per professione, come per passione, scartabella fra le polverose carte degli antichi archivi notarili, sa quanto apparenti anonimi documenti legali contengano invece, spesso, interessanti informazioni e possono decifrare eventi, abitudini e costumi economico-sociali del passato.

Se poi si vuol fare della storia locale, non è possibile non imbattersi nei numerosi e massici fascicoli dei Notari di Garfagnana. A questa ricetta io aggiungo, come ultimo ingrediente, la genetica passione del giurista per la storia del diritto (…dovuta, magari, chissà, proprio agli avi di Garfagnana), che insaporisce "il piatto" e completa la miscela.

Gli spunti interessanti sono moltissimi, fonti d'utilità per il genealogista (ne sa qualcosa il nostro Topo d'Archivio) come per gli altri settori della ricerca. Non avendo il sottoscritto, volutamente, il rigore scientifico del ricercatore, ma la curiosità del neofita, si è imbattuto casualmente in atti che possono però avere la loro utilità e comunicarci qualche cosa di interesse.

Tratto qui di alcuni testamenti del Seicento, che anche se, premetto, apparentemente lugubri nelle formule di stile, ci danno uno spaccato del secolo della peste nera, che molto aveva influito sulle abitudine e sulla filosofia di tutti i giorni anche della Garfagnana.

Il testamento, quasi sempre raccolto dal notaio nella forma dell'atto pubblico, riportava ripetitivamente all'inizio invocazioni sull'Aldilà, con risvolti religiosi, tutti a favore però di un invito a far testamento non "all'ultimo de' loro giorni", forse anche a buon pro della professione notarile. Ad esempio: non essendo più cosa certa della morte al mondo, e più incerta dell'ora di quella essendo cosa da prudente disponere delle sue facultà prima d'essere aggravata dall'acutissimi dolori della morte, perché ritrovandosi in qualche punto la mente vagante, distratta da diversi pensieri, i sensi vacillanti, la lingua balbuziente, le forze estenuate, l'anima e l'intelletto non costante, ma gravemente agitate, come per il più accade a quelli che aspettano all'ultimo de' loro giorni de' beni loro, e trattare secondo l'altrui volontà et arbitrio… oppure: considerando che è meglio vivere con la paura di morte che con speranza di vivere, per ciò ha risoluto e determinato la suddetta… ed anche: perché la morte e la vita stanno nella mano del Signore e però appartiene all'homo prudente star sempre vigilante, come se sempre fosse l'hora della sua morte…

Il testamento, mentre oggi non è così atto frequentissimo, grazie alla portata delle successioni legittime, che garantiscono già equi diritti dei parenti prossimi, nel Seicento, indipendentemente dalle condizioni economiche del testatore, la principale preoccupazione riguardava, comunque, la condizione dell'anima. Ogni persona, nobile o peblea, ricca o povera, possidente o nullatenente, doveva pensare all'Aldilà ed il modo migliore consisteva nel prevedere dettagliatamente, ad esempio, il numero di messe da celebrarsi pro remedio anima, con le relative scadenze, come la donazione di oboli per le candele da usarsi durante il funerale e per elemosina dei sacerdoti intervenuti.

Si disponeva altresì la destinazione di terreni all'opera parrocchiale o a qualche compagnia, magari con riserva di "livello" (enfiteusi) a favore degli eredi legittimi. Dopo aver determinato il luogo della sepoltura (nel "cemeterio" o nei pressi di qualche altare dedicato al santo di devozione), il resto era dedicato ai beni materiali. Qui si poteva notare la differenza di ceto sociale, come la disposizione dei soli beni dotali in caso di donna testatrice. Dall'inventario dei beni di Elisabetta Zavaglia, moglie di Alfonso Ponticelli da Castelnuovo, redatto da Ser Pellegrino dei Nobili Bellonzi di Ferrara, possiamo immaginarci l'arredamento di una più che dignitosa casa garfagnina. Riporto parzialmente: una lettiera bassa di ferro a quattro pomi d'ottone; una lettiera rossa con profile d'oro; una lettiera di noce; sei materassi bassi di lana; due piume; sacconi numero sei; dui stramazzi di borra; un arazzo con la storia della Regina di Saba; un bavaglione del battesimo d'eremisino; tre quadri con reliquie e cornice negra; sei quadri con ritratti di principi e principesse; tre arme di Sua Altezza Serenissima; un tavolino grande di noce col piede lavorato; sei sedie di vacchetta con franze; quattro scrannini e un inginocchiatoio di noce; uno zaffiro grosso legato in oro in mezzo a sei diamanti; una rosetta d'oro con venticinque pietre bianche; un anello d'oro con diamante puro; libri stampanti di diversi autori numero cinquanta; …

Tutto questo ben di Dio doveva sembrare perfino inimmaginabile a Chiara di Molazzana, che alla fine del secolo XVII lasciava alle figlie la sua umile dote, consistente nello stretto necessario per la massaia dell'epoca: una cassa di legniamo di castagnio, un cassone di cerasia, una catena di ferro, un paiolo e un lavezzino.

Nessun commento: