21 dicembre 2003

Selve…e buoi dei paesi tuoi

Non v’è alcun dubbio che, in ogni società rurale, la terra abbia sempre avuto il ruolo di bene in assoluto più prezioso. Non faceva quindi eccezione alla regola, nel passato, anche la “tèra” garfagnina. Basta ancora oggi guardare agli intricati puzzle delle carte catastali locali, come immaginare quei 2.646 volumi conservati nell’ex archivio notarile di Castelnuovo di Garfagnana, per avere un’idea della rilevanza socioeconomica della materia. Facile è quindi comprendere come le regole di gestione del territorio fossero precise, codificate, severe e soprattutto volte a garantire la sussistenza di ogni piccola o grande comunità. Quegli sciocchi campanilismi d’oggi che, a ragion veduta, fanno sorridere solo il pensare che possano essere creduti da qualcuno, avevano nei tempi passati concreta e drammatica ragion d’essere. Soprattutto nei territori comunali, vaste aree poste prevalentemente alle maggiori altitudini, le conflittualità di gestione erano all’ordine del giorno: questi beni fornivano infatti il sostentamento prevalente grazie ai pascoli ed ai boschi. Una tradizione, quella del possesso di beni collettivi, che probabilmente risaliva al tempo in cui i Longobardi abitavano la Valle, e rimasta incorrotta fino al nostro secolo nella residuale forma degli usi civici. Tale era il bisogno di mantenere integro questo possesso che lo Statuto della Comunità di Vibbiana di San Romano, nel 1783, impediva agli abitanti di vendere a qualsiasi forestiero questi beni, che sarebbero dovuti rimanere di titolarità del comune o dei suoi cittadini (per il cosiddetto diritto di jus congruo). Ma andando ancora indietro nel tempo si è rinvenuto un interessante documento, conservato nell’Archivio di Stato di Modena, che ci dice quanto fossero all’epoca importanti questi territori. Si tratta di una relazione del Capitano di Ragione della Vicaria di Camporgiano, datata 7 maggio 1603, che ci riporta di una disputa trascinatasi per circa due anni, fra le comunità di Vibbiana e Verrucole da una parte e quella di Soraggio dall’altra. Se l’intricata e cervellotica questione giuridica verteva sull’applicabilità delle norme dello statuto di Soraggio sui territori dai soraggini posseduti altrove, può essere interessante andare a sbirciare nell’ordinamento dell’epoca, per capire le principali conflittualità fra i comuni garfagnini del Seicento. L’invenzione di quelli di Soraggio era quella di elevare le pene pecuniarie per qualsiasi forestiero che avesse danneggiato in qualche modo i beni della comunità. Questo principio proprio non andava giù a quelli di Vibbiana e Verrucole, loro confinanti negli alpeggi appenninici e soprattutto dotati di statuti più benevoli nei confronti dei danneggiamenti. Di qui l’intervento di ben due magistrati (Giovanni Francesco Rondinelli e Nicolò Barisani) e la supplica a Modena. I danneggiamenti più frequenti sicuramente erano causati dalle “invasioni” nei campi da parte di greggi delle distruttive pecore e capre. La pena comminata era in questo caso di un ducatone (se il gregge era composto da 60 a 100 capi) o di un bolognino a bestia. Meno salata la sanzione per le mucche, che avevano un “trattamento” differenziato se trovate al pascolo abusivo diurno o notturno (10 bolognini a capo di giorno e 20 la notte). Non meno grave era il trovare un forestiero a raccogliere legna, che comportava il pagamento di 20 bolognini a persona. Altrettanta responsabilità era riconosciuta per il raccogliere castagne altrui, mentre oltre alla sanzione doveva essere altresì risarcito il danno in caso in cui venisse tagliato un castagno. Comprensibili quindi, su questa linea, le 5 lire comminate a chi “guastasse” un metato, segno inconfondibile di furti e dispetti fra “vicini” di selva.
Non ci è dato sapere se e come fu risolta la questione giuridica accennata, ma ciò che rileva è il complesso sistema sanzionatorio, che ci fa comprendere l’articolato impianto normativo e il precario equilibrio di convivenza fra comunità limitrofe.
Venuto meno il bisogno alimentare dell’epoca, c’è ancora chi vorrebbe farci credere che il campanilismo e la guerra fra poveri abbia ancora oggi un senso e una ragion d’essere. Una cosa resta però vera: la storia non sempre, come dovrebbe, insegna.

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