12 dicembre 2002

Sassi, pugni, pugnali e archibugiate

Se è pur vero che Pellegrino Paolucci, seicentesco rettore di Sillano, fa discendere dalla delicatezza dell’Aria l’acutezza degli ingegni dei garfagnini, non si può dimenticare che lo stemma dell’antica provincia estense era (e rimane per la Comunità Montana) una palla di cannone che esplode con tre fiamme, impresa di Alfonso I d’Este, che ci descrive, nel nostro caso, un altrettanto carattere “focoso” degli abitanti. Ingegnosissimi quindi, ma probabilmente altrettanto propensi a “prender fuoco” con poco o con nulla. Difficile dire se quest’ultimo requisito possa essere un pregio o un difetto sociale, soprattutto oggi, Deo gratias, generalmente mossi da una indifferenza per il valore del genio guerriero di questi popoli, come ci ricordava invece nel XVII secolo lo storico Anselmo Micotti di Camporgiano.
Bisogna scomodare quindi il Capitano di Ragione di Camporgiano dell’Anno Domini 1606, certo Geminiano Ronchi, modenese, per capire come all’epoca, i garfagnini, risolvevano le loro questioni quotidiane. Nell’ufficio del magistrato, infatti, si ritrovano gli elenchi dei reati commessi e trattati nella Rocca della Vicaria, che danno l’idea di quanto la giustizia, forse privilegio di pochi, veniva supplita da soluzioni fai-da-te, con il vantaggio di essere comode ed immediate.
L’arma d’offesa più comune, per dirimere le controversie, non poteva non essere la materia prima appenninica: le pietre. Nei diverbi, infatti, frequente è il lancio di sassi, elementi facilmente rinvenibili ovunque e pronti all’uso. Riporta il Ronchi d’un certo Antonio da Sillicano, che venuto a parole con Luca, suo cugino, li tirò una sassata nella vista con effusione di sangue. Non da meno Angelo di Bertolo da Careggine, querelato da Luca di Togno per avergli tirato un sasso in un braccio, percossilo con un altro su la vista, et morsicatogli il viso. Non ci sono neppure discriminazioni fra sessi, se Alessandro di Francesco, sempre di Careggine, fu denunciato per haver dato una sassata in un galone alla Santa di Angelo.
Nella hit parade dei mezzi risolutivi delle liti non possiamo non trovare, al secondo posto, l’efficace strumento del bastone, magari nodoso e non certo di legno dolce. Nell’aprile del 1606, nei prati di Orzaglia, Andrea di Bernardo denuncia d’aver avuto una bastonata su la vista con effusione di sangue da un certo Giovanni, riportando il tutto al sindaco del paese. In Nicciano, invece, vengono condannati Pietro di Pellegrino e Marcuccio di Jacopo, per haver assaltato Marco mezadro da Trasilico, dandoli Pietro de pugni, et Marcuccio delle bastonate.
E che dire delle garfagnine del Seicento? Taluna subisce le soverchie maschili, come ad esempio una certa Antonia di Andrea, che prende il coraggio di denunciare Franceschino, detto il Picchio da Vibbiana, per haverli tirata neve, datali due pugni nella bocca et fronte facendo sangue, percossola con un marello sul brazzo diritto gravemente et impeditala di venir alla Ragione minacciandoli d’amazzarla se ci fosse vinuta. Non tutte però sopportano passivamente, anzi; talvolta l’iniziativa è proprio femminile, tanto per riequilibrare la statistica. Risale all’8 luglio del 1603 un giudizio del Capitano Nicolò Barisani, che si trova a condannare Maria e Maddalena, sorelle, figlie del già Giovannino da Colle detto il Guerra, soprannome familiare che è già tutto un programma. Le donne, colte da Battista di Pietro a fare erba nel suo campo, non ci pensarono due volte a reagire: la Maria prese un sasso, et lo gettò al detto Battista, et lo colse nella faccia, per la qual percossa restò ferito con grand’effusione di sangue, et essendo subito cascato in terra, la detta Maria vi saltò addosso…Non di meno l’Angelina da Vibbiana, querelata per aver fatto segare, di notte, una colonna alla pergola dell’Angelina d’Alfonso, turbandola nel suo possesso. Tipica invece, la lite fra suocera e nuora, accapigliandosi in quel di Colle la Domenica di Jacomo e la Maria. Una povera vicina, la Giovanna di Marco, tentando di spartirle, restò percossa in un brazzo senza far sangue.
Neppure i preti erano esentati dai diverbi, se un gruppo di persone di Cortia vengono denunciate per essere andate, con archibugi a ruota alla canonica di Sant’Anastasio, ed aver sparato un colpo contro il malcapitato don Carlo, rettore della parrocchia. Non certo in migliori condizioni si trovava all’epoca prete Gio:Batta da San Romano, se Lorenzo e Giovan Battista di Verrucole, zio e nipote, percossero il malcapitato con pugni in un braccio, minacciandolo con la pistola e ponendo mano al pugnale.
In questa assurda par conditio di crimini, anche gli amministratori locali ebbero la loro “quota” di protagonismo. Riportano le cronache circa il sodalizio di Maria e Benedetta di Verrucole che, astiose nei confronti del sindaco Sante, andando a lavorare un suo campo si misero a percuotere le vacche di Sante di Gio. suddetto sindaco di detta comunità, et detta Maria percosse anch’esso Sante con un pennato sul brazzo destro con effusione di sangue. Altra denuncia del 1606 è del sindaco di Borsigliana, assaltato di notte da Giacopino di Bernardo che, artefice di una sonora “ripassata”, gli tirò due sassi mentre questi fuggiva a gambe levate.
Residuali ma non meno frequenti sfoghi, dei “focosi” garfagnini, sono i diverbi, le discussioni rimaste sul piano verbale ma, rientranti nella fattispecie legale dell’ingiuria, riportate dalle cronache commissariali. Risale al luglio, sempre del 1606, lo sfogo di Marcuccio della Cecala di Livignano che disse a Gio: di Santino, tu sei un becco cornuto, e Giovanni, ferito nell’onore, non poté far altro che metter mano alla spada. Non meno sensibile Bernardo del Poggio, che sentitosi chiamare “furfante” da Michele di Giovanni dello stesso luogo, si difese con l’unica arma a disposizione, ficcandogli la chiave dell’uscio in un occhio.

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